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La sorella - Olga Gnecchi

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La voce della madre le arrivava ovattata alle orecchie. All'inizio non riuscì a capire bene cosa stesse dicendo, ma le bastò cogliere qualche parola e avvertire la decisa inclinazione di tono per sapere a cosa si stesse riferendo. Erano sempre gli stessi discorsi d'altronde, quelli che faceva ogni volta che si avvicinava una festa. Che fosse Pasqua, Natale, Capodanno o un semplice compleanno, sua madre poneva a suo padre sempre le stesse banali ma insopportabili domande. Quel giorno il quesito era: con chi passeremo quest'anno la vigilia di Natale? Camilla sapeva bene che non sarebbe stata l'unica di quel ventidue di dicembre. Infatti sua madre continuò: «E il giorno di Natale? Con i tuoi o con i miei?»


Camilla percepì aria di burrasca quando il padre rispose: «Cosa vuoi che m'importi? Avresti dovuto pensarci prima!» Furono le ultime parole che arrivarono nette alle sue piccole orecchie, poi cadde in un sonno profondo.

Camilla stava male, malissimo. Da una settimana aveva la febbre molto alta e la temperatura non accennava a diminuire. Mancavano meno di due giorni alla vigilia di Natale e fuori c'era la neve; sentiva gli altri bambini schiamazzare fuori dalla finestra e li immaginava mentre facevano le lotte con le palle di neve o raccattavano qualsiasi straccio da utilizzare a mo' di sciarpa per i loro sgangherati pupazzi bianchi.


Camilla sperava tanto che la neve non si sciogliesse finché lei non avrebbe potuto correre fuori a giocare con i suoi amichetti su quel meraviglioso manto bianco. Aveva soltanto otto anni e quello era il primo Natale in cui si vedeva la neve. Sperava che ogni fiocco fosse un essere vivente capace di sentire le sue preghiere.

Ogni volta che stava male, Camilla si sentiva felice. Riceveva molte più attenzioni durante quei periodi piuttosto che quando stava bene. A volte fingeva di peggiorare solo per essere coccolata più a lungo. I genitori le davano molto più affetto, la colmavano di carezze e poteva passare più tempo con loro, come se fosse in vacanza. Persino la sorella più grande non le lanciava occhiate colme di odio e di invidia: Gaia aveva un “carattere tutto pepe”, come l'avevano definito scherzosamente in famiglia, che Camilla accettava senza mai lamentarsi perché lei amava sua sorella così com'era.


Eppure c'era qualcosa che non andava, Camilla lo sentiva: la febbre non accennava a diminuire e avvertiva chiaramente un'aura cattiva emanata dal suo stesso fragile corpicino. Lo aveva persino detto alla madre e al pediatra che l'aveva visitata qualche giorno prima, ma entrambi le avevano sorriso e l'avevano rassicurata: «È soltanto febbre. Passerà presto.»

Camilla sperava con tutto il cuore che fosse così. E poi, come una fastidiosa pulce nell'orecchio, aveva lo strano presentimento che i suoi genitori non le stessero prestando le stesse attenzioni delle altre volte. Erano talmente presi dalle feste natalizie, dagli addobbi, dai panettoni e dalle luci, che dovevano rendere la casa più luminosa tra tutte quelle del quartiere, che Camilla aveva iniziato a pensare di essere stata messa in disparte. Neppure sua sorella Gaia si era avvicinata alla porta per prenderla in giro, per dirle che anche quel giorno lei sarebbe uscita a giocare con la neve mentre Camilla sarebbe rimasta inchiodata a letto.


Passarono parecchie ore dall'ultima volta che qualcuno dei suoi aveva messo piede nella sua stanzetta, ore che Camilla aveva passato tra il sonno e la veglia. Le sembrava di aver dormito per mesi a ogni risveglio. Era debole e stanca, tanto che tenere gli occhi aperti si rivelava uno sforzo immane.

Si ritrovò a confondere la realtà con il sogno. Non sapeva se stesse ancora dormendo, quando le parve di vedere fluttuare nell'aria i suoi giocattoli preferiti. Eppure erano così reali le loro vocine mentre parlavano tra loro. Forse facevano proprio questo mentre lei dormiva. Parlavano e ridevano di lei? "No. Non è possibile..." si ripeteva "Non stanno ridendo di me."

Vide anche qualcosa oltre i giocattoli. Un'ombra nera nascosta dietro la tenda della finestra che stava di fronte al letto. La sagoma di una persona che la fissava immobile. Alta e talmente magra da somigliare ad una linea sottile. Se ne stava lì ed era come se da quella parte della stanza il tempo si fosse improvvisamente fermato. Fuori dalla finestra, il paesaggio dava un senso di sospensione; l'ombra di una mano reggeva un lembo della tenda e dietro di essa Camilla scorgeva soltanto la testa, una spalla e mezzo busto di quell'imperscrutabile sagoma. Nessun movimento, nessuna espressione.


La bambina ne ebbe paura, ma non riusciva a muoversi o a parlare. Sentiva soltanto le lacrime calde che le rigavano le guance e scivolavano sul cuscino. Voleva chiudere gli occhi ma non ci riusciva. La distrasse la risata della sua bambola preferita e, quando tornò a guardare verso la tenda, l'ombra non c'era più. In un attimo, anche i giocattoli smisero di fluttuare nell'aria e di ridere di lei.

Sua madre entrò nella stanza.

«Camilla...» la chiamò, più di una volta.

La bambina non rispose.


Era accecante. Forse perché aveva dormito troppo. I suoi occhi non volevano abituarsi alla luce e la piccola pensò che non avrebbero mai potuto.

«Vedi, Camilla?» sentì chiedere da una voce bassa, incorporea e tanto potente da intimorirla.

Lei non seppe rispondere, non sapeva dove o cosa guardare. Era così strano, innaturale e non sembrava ci fosse qualcosa oltre quel nulla scintillante.

La voce sembrò leggerle nel pensiero perché disse: «Guarda in basso.»

Camilla rivolse lo sguardo dove le aveva indicato la voce. Vide la sua famiglia: i genitori e la sorella, Gaia. Dovevano trovarsi in una camera di ospedale, le pareti bianche e azzurre; sul comodino, accanto al letto, le luci di un minuscolo alberello di Natale si accendevano a intermittenza. Su quel letto era disteso il suo piccolo, pallido corpicino. Esanime, aveva gli occhi chiusi.


Vide un'infermiera poggiare la mano sulla spalla di sua madre mentre un dottore le copriva col lenzuolo il pallido visino. Quel gesto fu il colpo di grazia per la madre, che non seppe trattenersi dall'esternare un dolore acuto e soffocante abbandonandosi tra le braccia del marito. Anche Gaia piangeva e si strinse nell'abbraccio.

«Dovrebbero essere tutti così a Natale.» disse la voce allegramente.

Camilla si voltò a guardare, pensando che il suono provenisse da qualcuno alle sue spalle. Scorse un'ombra nera come quella che aveva visto in camera sua, ma molto più alta e paurosa.

«Che giorno è oggi?» chiese la bambina, prendendosi di coraggio.

«È il giorno di Natale.»

«Posso tornare adesso?»

«Puoi restare quanto vuoi.»

«Non voglio che soffrano per me.»


«Sei sicura? Non credo gli importi davvero. Ti avranno seppellita prima di Capodanno e torneranno a litigare su dove e come passare il resto delle loro feste. Non ti amano come credi.»

Camilla ci pensò su. E se l'ombra avesse avuto ragione? Aveva una voce così suadente che quasi la bambina stava per convincersi del fatto che davvero ai suoi genitori non importava nulla di lei.

«Ho soltanto otto anni. Forse sono ancora troppo piccola e non mi conoscono bene. Hanno bisogno di altro tempo per imparare ad amarmi.»

«Eppure pensavi di dovere stare male per ricevere più attenzioni da loro.»

«Per favore, fammi tornare e vedrai che mi vorranno bene!» affermò la piccola con sicurezza.

«Ti troveresti meglio qui.»

«Hanno bisogno di me. Non capisci?»

«Dammi un motivo valido e potrai tornare indietro.»


La camera di ospedale era fredda e impersonale. Gaia la odiava. Piangeva perché era triste, non tanto per la stupida sorella ma per i regali che non avrebbe mai aperto l'indomani mattina al risveglio. E pensare che erano tutti lì, sotto l'albero di Natale, pronti per essere scartati. Avevano passato un giorno intero al capezzale di Camilla, sperando che si svegliasse, e invece quella aveva giusto smesso di respirare.

“Che stupida!” pensò Gaia “Che stupida è stata Camilla a morire giusto la notte di Natale!”


In quell'istante il lenzuolo si mosse e si sentì una flebile vocina provenire da lì sotto: «Gaia...»


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